Don Angilinu ‘u gilataru nasce l’1 marzo del 1923 ad Acireale.

Ci racconta di lui il figlio Santo Trovato, corniciaio in via Marchese di Sangiuliano, da noi felicemente incontrato una mattina di giugno.
Angelo ed io eravamo in fase di ricerca presso la Biblioteca Zelantea di Acireale, quando la signora Giusi Leone, che ci aiutava a reperire i testi per la nostra ricerca sulla granita e i nivaroli, ci riferisce che il figlio del famoso gelatiere acese Don Angilinu è proprio qui vicino, a due passi da noi! Ci precipitiamo da lui e scopriamo che quanto dettoci dalla signora Giusi corrisponde a verità.
Santo è lì, gentile, disponibile, con un’umiltà d’altri tempi, che probabilmente distingueva anche suo padre. Mesi dopo, scopriamo che un altro dei figli di Don Angelino è il signor Turi Trovato, anch’egli persona meravigliosa che, già in passato, avevo avuto modo di apprezzare. Santo inizia subito a raccontarci le sue memorie di bambino, descrivendoci come, a bottega da suo papà, si faceva la granita un tempo:

All’origine, per fare la granita si cominciava dalla materia prima, cioè con le mandorle con tutto il guscio che si doveva schiacciare, dopo che si spezzava si doveva come diciamo in siciliano “scartari” cioè togliere il guscio separandolo dal frutto, a mano, una ad una! Dopo di che si mettevano a bollire le mandorle sgusciate e si toglieva la pellicina mentre erano ancora caldissime, e le mani si bruciavano. Poi avveniva la lavorazione con le raffinatrici per macinare queste mandorle insieme con lo zucchero e raffinarle fino a far uscire l’impasto che si presentava come un velo dal quale, lavorandolo con le mani, si ricavavano i panetti che venivano conservati avvolti nei panni e da cui poi si faceva la granita.

 

L’impasto diventato un panetto fatto di mandorla, che si scioglieva poi con l’acqua, mescolandolo con le “cattabrighe”, cioè delle speciali pale che si immergevano nel contenitore con il panetto e l’acqua e ruotavano salendo e scendendo in mezzo all’impasto.
Una volta sciolto il tutto, si versava nei “pozzetti”. A volte  l’impasto si aromatizzava con l’essenza di mandorla amara, un tipo di mandorla da cui si ricavava quest’essenza che dava all’impasto un sapore particolare.
Per raffreddare l’impasto della granita, si usava “ ‘u tineddu” che era un tino di legno, tipo la botte ma senza la pancia… era sopra più largo e sotto andava a stringere. Dentro al tinello si infilava un pozzetto attorno al quale si mettevano alternati strati di ghiaccio e sale fino ai bordi e alla fine, sopra l’ultimo strato di sale, si metteva un sacco di juta arrotolato e pressato che bloccava. Questa era la “ghiacciera”. Si mettevano due di queste nel “carretto” e si andava in giro per vendere la granita.
All’inizio i gusti normalmente erano mandorla, caffè e cioccolata. Dopo è stato fatto anche il limone e così via gli altri  gusti di frutta delle nostre zone.
La giornata di lavoro iniziava molto presto: alle 3.00 di mattina si cominciava la lavorazione che durava fino alle 6,30-6,45. Alle 7.00 del mattino si era già fuori.
Ma il caffè si preparava la sera prima, per lasciarlo riposare e usarlo la mattina seguente.
Mio papà produceva la granita sia per se, che per darne anche ad altri 3-4 gelatai che giravano con i carretti. Ogni giorno, produceva circa 20 litri per ciascuno di loro. Lui personalmente girava tutta Acireale, cominciando il giro dalla zona di San Michele per poi scendere verso Santa Caterina, la zona dei morti, piazza Duomo, e, per finire, il giro alla pescheria dove si fermava e vendeva tutto fino alla fine prima di rientrare. La domenica aveva il posto fisso (a pagamento) alla villa Belvedere, vicino all’ingresso laterale che portava all’Arena Eden. In estate arrivava fino a Santa Maria la Scala dove c’erano due ragazzini che lo aspettavano per il gelato. Lui appena arrivava gli dava la granita o il gelato, e una volta finito il giro, loro lo aiutavano dandogli la spinta per ripartire e lui dava loro sempre un altro gelato.
Finite le granite, all’ora di pranzo, papà tornava a casa, si pranzava, e si cominciava a lavorare con il gelato che nel frattempo che lui girava la mattina, veniva preparato da mia madre.  Alle 15.00, 15.30, lui usciva e ricominciava il giro con i gelati  fino alla sera verso le 8.00.

Una cosa particolare che ha inventato mio papà e che molti ricordano è il “gelato ccu turcu”: un cono che lui immergeva nel cioccolato fuso a bagnomaria, ripassava dentro il pozzetto del gelato per farlo raffreddare e, una volta solidificato, porgeva al cliente.

Scopriamo così che il carretto che usava Don Angilinu non solo conteneva i pozzetti, ma era anche organizzato per sciogliere la cioccolata a bagnomaria con cui preparava ill “gelato ccu turcu” di cui può vantare l’ideazione.

“In parte i carretti li ideava lui, e li realizzava pure. Poi però se li faceva dipingere a seconda del tipo di carrozzella: quella a forma di nave aveva i salvagente e le navi dipinte, poi ne aveva uno con un cigno con le ali aperte in ottone. La notte li sognava e poi li realizzava!”

Quando chiediamo di raccontarci del rapporto con gli altri gelatai che venivano a bottega dal padre, Santo ricorda il nome di Don Mariddu du Pizziddu,  e  quello di  Turazzu o Turiddu Leotta, detto ‘u spazzinu, che veniva spesso con il figlio Camillo, e inizia a ridere ricordando e raccontandoci un aneddoto, un fatto realmente accaduto, confermato e riferitoci in seguito anche dallo stesso Camillo:

“ ’n gnornu, mentri travagghiaumu, Camillo ‘ntappau a testa e mo’ mamma, comu si usava ‘na vota, ci misi ‘na muddica supra a frunti. Iddu chi fici: pigghiau e s’a mangiau! Allura mo’ mamma ci spiau e iddu ci dissi: Signura ma iu c’aveva fami! ”

 

Al momento dei saluti, gli chiediamo guardando ancora al passato come ricorda quel periodo di lavoro con suo papà e lui, con nostra meraviglia, risponde senza pensarci due volte: “lo rifarei! Quando ero piccolo non mi piaceva  perché era molto faticoso e io volevo andare a giocare. Ricordo ancora quei sacchi da 5 chili pieni di mandorle da sgusciare, e le mattine in cui c’era l’alza bandiera per tutti: io, mio fratello (Turi Trovato), mia mamma…” e gli si illuminano gli occhi.
Ci salutiamo così, tra i ricordi e i progetti futuri e presenti grazie ai quali, con la creazione di questo evento, siamo venuti a contatto con questa persona, meravigliosa, eredità di un passato ancora a noi vicino.

Grazie Santo.

Tiziana e Angelo