Il rito della granita è, tutt’oggi, vissuto dai siciliani come un momento di comunione e di relazioni sociali, una tradizione del gusto che affonda le sue radici nella dominazione araba, poi evolutasi, soprattutto nel versante orientale dell’Isola, in un raffinato e inimitabile prodotto dolciario che acquista, via via che si percorre la costa e nelle diverse province, determinate variazioni aromatiche.

Fin dal Medioevo, in Sicilia esisteva la professione dei “nivaroli”, cioè quegli uomini che d’inverno si occupavano di raccogliere la neve sull’Etna, sui monti Peloritani, Iblei o Nebrodi, e tutto l’anno, si occupavano di conservare la neve nelle “neviere”, preservandola dal calore estivo, per poi, come nel caso dei “nivaroli dell’Etna”, trasportarla sino in riva al mare nei mesi di maggiore arsura.

La neve da “muntagna”, dalle “nivere” dell’Etna, arrivava […] in piena estate, ottima  per confezionare le granite, si vendeva “na vanedda a nivi”, oggi via  Lancaster.  La neve d’inverno veniva posta in grossi fossi appositamente scavati nel terreno e ricoperta di cenere vulcanica o dentro grotte vulcaniche, d’estate veniva ripresa e confezionata in “balle”, ricoperta di felci e paglia e trasportata a valle con carretti o muli in sacchi di juta (1).

Ancora oggi, su alcuni monti, si possono trovare le buche usate per la conservazione del ghiaccio, rifinite con mattoncini o pietra.

Tra i nobili delle famiglie patrizie, con l’avvento delle calde temperature estive, era consuetudine comprare la neve dell’Etna raccolta d’inverno dal “nevarolu”, e farla conservare in apposite “case neviere” in vista della stagione estiva. Queste neviere private, ad uso domestico, erano ubicate in anfratti naturali e in luoghi particolarmente freschi, per riparare la neve dal caldo e conservarla più a lungo. La neve veniva grattata e utilizzata nella preparazione di sorbetti e gelati da degustare nei momenti di calura, versandovi sopra spremute di limone o sciroppi di frutta o di fiori. 

La granita veniva preparata in diversi gusti, con il caffè e con i limoni, gelsi e mandorle della nostra zona. Infatti nel nostro territorio acese oltre alla coltivazione dei limoni e dei gelsi, sulla “timpa Falconiera” di S.Tecla (Acireale) esistevano nell’800 vasti mandorleti (2). 

Questa preparazione (che sopravvive ancora nella preparazione della “grattachecca” romana), era diffusa ancora fino al primo Novecento con il nome di “rattata” (grattata).
Durante il XVI secolo, si apportò un notevole miglioramento alla ricetta dello “sherbet”, scoprendo di poter usare la neve, mista a sale marino, come espediente per refrigerare. La neve raccolta passò così da ingrediente a refrigerante. Nacque il “pozzetto”, un tino di legno con all’interno un secchiello di zinco, che poteva essere girato con una manovella. L’intercapedine veniva riempita con la miscela di sale e neve chiusa da un sacco di juta arrotolato e pressato. La miscela congelava il contenuto del pozzetto per sottrazione di calore, e il movimento rotatorio di alcune palette all’interno impediva la formazione di cristalli di ghiaccio troppo grossi.
La preparazione della granita siciliana è unica e  riesce a dare una consistenza “a fiocchi” al prodotto finito.

Impalpabile al palato essendo a base di acqua, zucchero e frutta, la granita così preparata ha soppiantato nei secoli la “rattata.
Nel corso del XX secolo, nella formula moderna della “Tradizionale Granita Siciliana” mentre la neve è stata sostituita con l’acqua ed il miele con lo zucchero, il pozzetto manuale raffreddato da ghiaccio (o neve) e sale, grazie alla tecnologia del freddo (mantecatore), è stato sostituito dalla gelatiera, consentendo di produrre quell’inconfondibile impasto cremoso, privo di aria e ricco di sapore che, grazie alle sue peculiari caratteristiche, è conosciuto e vantato nel mondo con il nome di “Granita Siciliana”.

Note(1-2-3)  di Antonino Cucuccio – AAG Accompagnatore Alpinismo Giovanile Sezione Acireale del Club Alpino Italiano.